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In Memoriam
Gino Stefani (1929-2019)

T E S T I M O N I A N Z E
Oltre quelle verbali improvvisate di :
Cecilia Campa, Flavio Colusso, Giancarlo Rostirolla, Agostino Ziino


“Caro Gino ti scrivo" (Massimo Privitera)
“Caro Gino ti scrivo, e così mi consolo un po’ / perché ora sei molto lontano, e mai più ti rivedrò”. Una delle tantissime cose che (mi) hai insegnato, Gino, è “l’arte di arrangiarsi in musica”. Così seguo il tuo esempio e manipolo questi versi di Dalla per dirti addio dal profondo del mio cuore (e con una canzone, come sarebbe piaciuto a te); per dirti grazie di tutto quello che mi hai dato; per dirti quanto l’impronta che hai impresso in me (prima tuo studente e poi avido frequentatore di casa tua) sia sempre rimasta viva e profonda (puntualmente la ritrovo ogni volta che mi guardo dentro per interrogarmi su chi sono e cosa sto facendo).  Ti voglio salutare, Gino, ricordando quello che mi hai raccontato sulla prima volta in cui mi hai notato, quando sono entrato in aula, a lezione iniziata, con una lunga barba nera, con ai piedi i sandali e in mano un pacco del latte. Mi hai raccontato divertito di esserti detto: “ecco uno da cui posso imparare qualcosa”. Perché, vedi, Gino, la tua capacità di imparare da tutti, la tua disponibilità (anche verso uno studentello pieno di passioni e di curiosità, ma con tanta confusione, e la testa un po’ tra le nuvole) è una delle cose più preziose di cui ci hai fatto dono. Benché talvolta non ci riesca, tento sempre di farlo anch’io.  Addio, Gino, ovunque tu sia!

Ricordando Gino Stefani (Giovanni Arledler sj) 
È stato un musicista a tutto tondo. Nato a Samarate (Varese) il 2 ottobre 1929 e morto a Roma il 7 aprile 2019 si è occupato di jazz, di musica liturgica, di semiotica, della globalità dei linguaggi. Dopo aver suonato da ragazzo il clarinetto in banda, si è dedicato alla musica ballabile e al jazz, realizzando a Milano il primo disco in studio con Giorgio Gaslini nel 1948. Si diploma in Conservatorio in clarinetto, composizione e polifonia vocale e conosce Luciano Berio, grazie al quale approfondisce l’interesse verso ogni genere di musica con le varie particolarità di linguaggi. Grazie alle sue convinzioni religiose e alla sua sensibilità, ha partecipato al rinnovamento della liturgia cattolica sia con una ventina di composizioni - tra le quali si ricordano "Noi canteremo gloria a Te", "Mistero della cena", "È nato il Salvatore", "Un angelo disse a Maria" - sia sul piano della riflessione con "L’espressione vocale e musicale nella liturgia" (Torino-Leumann, Elle di ci, 1967). In Francia, come precursore del rinnovamento del canto liturgico post conciliare dobbiamo ricordare l’opera di Jean Gelineau sj per cui non meraviglia che poi Stefani sia stato chiamato all’Institut Catholique di Parigi e abbia insegnato anche all’Istituto liturgico S. Anselmo di Roma. Più che l’insegnamento al Conservatorio nel volgere degli anni diviene importante la sua presenza all’Università, soprattutto al DAMS di Bologna nel quale fece lezioni dal 1977 al 2001 sulla semiotica musicale e [dal 1985] sulla metodologia dell’educazione musicale. Fortemente voluto da Umberto Eco, che aveva seguito le sue riflessioni a partire dalla competenza comune, dai contesti, dalla diversità e dall’articolazione dei linguaggi, tutto verificato sempre dalla competenza e dalla pratica musicale, Gino Stefani si può considerare tra i pionieri della semiotica musicale in Italia. In proposito si fa fatica a ricordare i numerosi titoli delle sue pubblicazioni. Ne citiamo alcune tra le prime: Musica barocca - poetica e ideologia (1974); Introduzione alla semiotica della musica (1982); La competenza musicale (1982); Il segno della musica (1978). Lasciato il DAMS e Bologna, e stabilitosi a Roma, in collaborazione con Stefania Guerra Lisi, ha messo a fuoco e approfondito un nuovo ambito di studi, «la Globalità dei linguaggi», collaborando con l’Università degli Studi di Roma, Tor Vergata, e dando ancora alle stampe un numero cospicuo di pubblicazioni.

Le voci di Gino (Rossana Dalmonte)   
Da quando Flavio Colusso mi ha informata che Gino Stefano non è più fra noi, ho cominciato a contare: da quanto tempo lo conosco? In quale periodo ci siamo frequentati più intensamente? Da quanto tempo non ci siamo visti? Mi sono resa conto subito che lo chiedevo a me, ma lo chiedevo anche a lui, a sostegno della mia memoria. Perciò ho cominciato a formulare diversamente le domande: Gino, da quanto tempo ci conosciamo? ….e così via, richiamando alla mente la sua voce. Era la voce di un Maestro: sempre sicuro di sé, disponibile a rispondere e a ripetere, per essere meglio compreso, era una voce spesso venata d’ironia, una voce che “veniva dall’alto” e mi faceva sentire più piccola. Certo io sono più piccola di lui di circa 6 anni…una differenza, tuttavia, che fra adulti spesso non ha importanza: ma lui me la faceva notare. Forse voleva farmi sentire – all’inizio degli anni Settanta, nell’ambiente del neonato DAMS dell’Università di Bologna – che ero più piccola “scientificamente”. Eppure né il grande Guru degli studi semiotici a Bologna – Umberto Eco – né la nascente stella internazionale del settore – Jean-Jacques Nattiez mi parlavano con quel tono. Ho pensato che fosse un po’ misogino e perciò per lui tutte le donne fossero “più piccole”. Eppure fu lui ad invitare a Bologna Julia Kristeva… Oppure è possibile che non avesse letto i miei lavori, che non erano lontani dai suoi nella sostanza, e nemmeno negli obiettivi visto che anche per me al centro della ricerca restava il problema del “capire la musica”. Nonostante gli intriganti interrogativi che mi poneva la sua voce, sentivo che entrambi stavamo “dalla stessa parte” e ci sentivamo “diversi” rispetto alla maggioranza dei nostri colleghi impegnati nelle ricerche storiche. Qualche anno più tardi la voce di Gino nei miei confronti cambiò e contemporaneamente venne in scena la voce del suo clarinetto. A questo punto la nostra amicizia ricevette una forte spinta. Ai discorsi di semiotica sul “capire la musica” si sostituirono ore intense di “fare la musica”. Ciò avveniva soltanto la domenica pomeriggio, a casa nostra in Via Guidicini, di solito a tre, Gino, Mario Baroni e io, ma un paio di volte si aggiunse a noi Umberto Eco. Ci sono foto a prova di ciò che racconto, ma siccome non immaginavo che avrebbero assunto un “valore storico” sono finite in fondo a qualche cassetto e chissà chi le ritroverà. Gino non si presentava a queste riunioni per riscuotere le rendite della sua notorietà di semiologo, ma si accalorava in discussioni sull’armonia e sul giusto peso da dare a ogni voce nel contesto di un contrappunto, sul timbro dei vari strumenti e specialmente del clarinetto. Mario (e Umberto Eco quando era con noi) suonavano i flauti, io il pianoforte e Gino era la voce del clarinetto. La sostanza del programma era costituita generalmente da una sonata a tre di epoca barocca. Un’imprevedibile citazione – a clarinetto solo – faceva da chiusa al pomeriggio musicale. Questa è la voce di Gino che per lungo tempo ho amato di più. Recentemente, quando ormai le nostre strade da molto tempo avevano preso direzioni diverse, dopo – tanto per capirci – la festa per il suo ottantesimo compleanno, ho scoperto del tutto per caso un’altra voce di Gino. A quella festa c’era moltissima gente e il tutto si svolse all’insegna di una particolare loquacità da parte del festeggiato, che non parlava più sopra della testa della gente, ma guardava tutti dritto negli occhi. Non avemmo molto tempo per conversare, noi due, e non parlammo del passato, ma piuttosto di quante vie ci lasciava ancora aperte il futuro. Un Gino dalla voce ottimista, calda. In quella occasione fu presentato al pubblico un volume che conteneva “scritti per Gino” di colleghi, amici ed allievi che ricordavano qualche aspetto del loro incontro con lui. In quel libro – La coscienza di Gino – c’è una fotografia di Gino al pianoforte. Non l’ho mai sentito suonare il pianoforte, ma posso immaginare che questo strumento sia stato per lui più comodo del clarinetto per fare certe analisi e forse qualche volta anche per le lezioni. Insomma uno strumento di uso pratico. Mi stupii vedendo quella foto, poi mi è passata di mente. Poco dopo l’accordatore Mauro Pasquini mi propose di andare con lui a vedere un pianoforte a coda, marca “hthner”, che secondo la sua solidissima esperienza, rappresentava un ottimo affare. Chissà perché, pensai, proprio la persona che accudisce il mio Bechstein-della-vita e lo Steinway della Fondazione Istituto Liszt, e quindi sa benissimo che non ho bisogno di un altro strumento, mi viene a fare una simile proposta. Ma lui insistette: «La proprietaria – la signora Chiara Stefani – che abita a Casalecchio, mi ha detto di rivolgermi a lei». Che notizia! La “piccola” Chiara! Da quanto tempo l’avevo persa di vista! Andammo subito e rividi la figlia di Gino….e il suo pianoforte. Chiara doveva cambiare casa e voleva disfarsi di uno strumento troppo ingombrante. Vecchio di quasi un secolo, ma così ben tenuto, e con un’aria tanto nobile nel suono… E’ stato un amore al primo tocco e dopo pochi giorni il Blüthner troneggiava accanto al mio Bechstein, perfino un poco più grande di lui, rendendo la circolazione nella stanza assai problematica. Lo strumento, s’intende, mi portava in casa una parte di Gino, un’altra sua voce. E’ diventato lo strumento di Mario per le nostre serate di musica a due pianoforti. E quando lui suona mi pare di risentire la voce di Gino, anche questa, come la sua prima, mi fa sentire “piccola”, mi passa sopra la testa… Per quanto faccia il mio squillante e tenero Bechstein è la voce-di-Gino che emerge e mi fa capire quanto ancora devo lavorare per diventare grande.     

Gino il socratico (Mario Baroni)
C’è sempre stata una componente socratica nella personalità di Gino: gli piaceva ragionare su tutti gli aspetti della vita e soprattutto insegnare a ragionare. Questa è sempre stata la cosa che mi ha attratto in lui, indipendentemente da accordi o disaccordi, perché anche a me piaceva ragionare. C’era solo una differenza: io ero tendenzialmente tranquillo e riservato, mentre lui era un estremista battagliero. A me bastava mettere in atto il mio distacco critico, mentre lui si buttava per modificare il mondo e il modo di pensarlo. Ma non aveva certo vocazioni politiche: era solo un filosofo socratico. Per di più non gli bastava modificare le idee correnti: voleva rovesciarle. Quando riusciva a trovare l’altra faccia della luna era tutto contento: lo si vedeva dall’espressione del viso e degli occhi. Ma non gli bastava trovare la parte invisibile della luna: dopo averla trovata la doveva anche definire, e in quest’opera definitoria il suo entusiasmo si trasformava in genialità. Sapeva trovare formule semplici ma capaci di affermarsi, di venire immediatamente capite e condivise: titoli, etichette, termini-chiave pieni di significati. Per qualche tempo si dedicava anche a trovare argomentazioni per sostenerle, e infine ci scriveva un libro, con tutti i dettagli e i ragionamenti necessari. Poi il libro cominciava a vivere di vita propria e andava per il mondo senza più bisogno dell’autore. Così la sua vocazione primaria e profonda cominciava subito a rinascere: doveva assolutamente cercare un’altra luna e descrivere la faccia di cui nessuno sapeva ancora nulla.  Di luna in luna il percorso procedeva imperterrito. C’è da dire che in quegli anni non si faceva molta fatica a trovare nuove lune. Quella era l’epoca giusta: il clima generale è stato quello sessantottino in cui tutti rovesciavano tutto. Ma Gino non era affatto un sessantottino: era Gino e basta. E continuò ad esserlo anche dopo gli anni delle rivolte. Continuò ad essere un socratico. Ma Socrate aveva un limite: la legge, a cui si sottomise e che l’uccise. Oggi, evidentemente, non esistono limiti: si può sempre rovesciare ciò che si vuole.  Ma, mi chiedo, se tutti rovesciano e nessuno raddrizza potrebbero nascere problemi. Tuttavia io non so dire se l’idea di raddrizzare sia mai stata al centro degli interessi di Gino, anzi direi che la sacralità della legge fosse l’unico suo punto di divergenza rispetto a Socrate. Forse perché la nostra epoca è ben poco socratica e ben poco tragica.

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